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Gioco, 1994, è una delle prime opere di Gabriel Fekete, e risale al tempo della sua maturazione precoce nelle aule dell’Accademia di Brera quando – ragionavo allora con gli studenti della non univocità dell’arte novecentesca, e di certe sue ben identificabili radici nel classico nonostante il mainstream sperimentale – già si segnalava la sua scelta radicale, che s’avvertiva necessitata, in favore di un figurare scultoreo che si voleva consapevole di se stesso.
Figurare consapevole, ciò che non significava rétro, o nutrito dei molti umori antimoderni per lo più d’accatto largamente circolanti allora come oggi. Per Fekete ripartire dal corpo, dall’idea stessa di statua, significava esplorare in chiave di una modernità comunque possibile e cercata le strade che, senza marcare fratture con la prospettiva storica della forma, ne ritrovavano una continuamente ulteriore raison d’être, le cadenze e le linee evolutive, un destino ancora legittimo.
Eccolo dunque, in quei suoi ancora acerbi cementi (dico Gioco, e nel 1996 Ingram) ripensare alla lingua ancor ben viva ch’era stata di un Henri Gaudier-Brzeska e di uno Jacob Epstein, ad esempio. Ciò si leggeva in quei volumi enfatici, rudi, di cui avvertivi insieme il peso ma anche la respirazione, e l’espandersi tendendo le superfici per espansione come plessi concreti verso la luce: che in Ingram si facevano ragionamento ancor più articolato sul pondus e sulla torsione, a serrare la forma come qualità plastica che irrompe nello spazio e lo decide, deliberatamente a scapito della minuzia accidentale e in privilegio accordato a una sorta di crudezza che negli anni Trenta si sarebbe detta “primitiva”.
Lo scorcio del decennio Novanta ha visto Fekete procedere per passaggi cautelatissimi verso una diversa concezione della forma e nella direzione d’una diversa stilizzazione, affidata a torsioni lineari più esplicitate, a un lavorio della luce che bagna le superfici tentate ora da qualche suggestione pittorica, e verrebbe da dire coloristica. Opere come Timidezza e Chiamata richiamavano anche certo clima déco depurato di meretrici sensibilistici – penso ad esempio a un Alfred-Auguste Janniot – e al novecentismo meno passatista, da Georg Kolbe all’Ernesto De Fiori che dichiara: “La forma, una conseguenza del mio sentimento per il mondo, come espressione dello spirito. Non naturalismo, non espressionismo, non cubismo. Forse: vitalismo?”.
Il filtro attraverso il quale Fekete decide di vagliare il suo rimuginio formale si fa, nel decennio nuovo, quello dei due massimi interpreti del figurare novecentesco che avverte vicini, Giacomo Manzù e Francesco Messina, verso i quali denuncia senza complessi più d’un debito.
Ma la sue scelte, dal 2004 circa, si schiariscono definitivamente, e inaugurano un corso d’opere che giunge sino ai giorni nostri e che si può ben dire di prima maturità.
Anzitutto Fekete comprende che il materiale suo di vocazione è, né altrimenti potrebbe essere, la terracotta. Egli sa che “se fa di terra”, come vuole Leonardo, “può levare e porre”, e che, soprattutto, la scultura nasce per via di complicità, crescendo allo spazio e alla luce, dotata d’un suo naturale colore che si fa non eteronomo carattere e valore. Sa, contemporaneamente, che il suo rapporto con lo spazio può farsi di naturale solidarietà, e tale continuità rimemora anche il suo rapporto fisiologico con lo spazio architettonico: la serie Monache proprio a tale congeneità con la parete, con lo spazio fisico, e con le sue filigrane storiche, fa riferimento.
Contemporanea all’assunzione esclusiva della terracotta è la scelta di liberare il suo rapporto con l’immagine da ogni superfetazione di tipo teoricistico o intenzionato. Assumendosi un rischio espressivo altissimo, Fekete si pone di fronte alla modella, senza filtri. Ne ausculta e scrutina il muoversi del corpo nello spazio, i movimenti ordinari, i rapporti con il luogo elementare d’esistenza e i rapporti possibili con altri corpi in situazioni di relazione, depurandosi d’ogni retorica possibile (felice è, da tal punto di vista, la scelta di adottare in una delle serie più intense lastre di straniante acciaio inox come unico encadrement situazionale) e votandosi a una autenticità senza remore.
Nasce da qui la serie di nudi bellissimi che oggi, per la prima volta in modo organico, Fekete espone.
Di essi si deve apprezzare, ritengo, non solo un grado di compiutezza espressiva ormai accertato, ma anche, e soprattutto, la capacità di ritrovarvi l’identità storica stessa dell’originario, atavico far statue. Si tratta, in altri termini, di sculture che dicono di figure attuali, viventi, pulsanti, attraverso cui sale per i rami del riconoscimento culturale la lezione grande, impervia dell’antico: che non prevarica, ma nutre il pensiero della forma esistente.
Allora si può ben offrire a Fekete, quale viatico per i prossimi, sicuramente fervidi, corsi di ricerca, la riflessione decisiva di Auguste Rodin: “L’Antico ci ordina non di copiarlo, né di interpretarlo, ma di operare come lui – il che non vuol dire fare la stessa cosa – e attraverso tutte le sue opere ci offre quest’unica lezione: andare a una sola scuola, la Scuola della Natura”.
Milano, Aprile 2010