Divagazioni su Gabriel Fekete.

di Ada Zunino

Gabriel Fekete ha sangue mitteleuropeo nelle vene, e si vede.

Ultimo dei romantici vecchio stile, e primo di quelli contemporanei, racconta in scultura di un mondo che non c’è più ma che, come per incanto, si ricrea ogni giorno nelle scuole di danza, tra l’artista e la modella di nudo, nelle aule del tempo che fu, ove i canterani sono ancora auliti di cotogno. Suo figlio non a caso si chiama Ariel, nome di vento e folletti dei boschi. Anche di persona suo figlio (di circa due anni) sembra di porcellana. Anzi di terracotta. Fragile. Come le sculture di suo padre, fragili e lievi da un lato. Dall’altro hanno gambe delle sette leghe, robuste, da valchiria. Però si celano dietro fazzoletti di velo. Sono impudiche e caste, bugiarde e sincere, antiche ed attuali.

Vivono tra passi di danza, esercizi alla sbarra e panini con hamburger. Fekete si muove con la sinuosità d’un serpente, con la gestualità d’un incantatore, suona il flauto tra le sue opere.

Lui, Fekete, ha lunghi capelli pettinati all’antica con la scriminatura nel mezzo. Vive in una casa piccola piccola, con il soppalco. Il suo studio è aereo e sospeso sul presente dal quale è escluso tutto quello che pesa più di una piuma. Fekete insegna a un manipolo di studenti storia dell’arte. Quando insegna le sue educande di terracotta lo attendono ansiose di essere terminate. Non hanno l’aggressività del famoso esercito di terracotta cinese: ne condividono il materiale. Quelle di Fekete sono plasmate nella creta, però in più hanno l’ingrediente segreto: come la  Coca  Cola.

Ognuno di noi deve afferrarne il fruscio.

 

Milano, 5 Maggio 2010